Data di nascita

29 giugno 1625

Periodo di riferimento

1625-1693

Data della morte

?

Cosa si sa

Bartolomeo del Giudice (Bartholomeo de Judicibus) nasce il 29 giugno 1625 a Milano.

Entrato nell’Ordine Camilliano nel 1641, riceve l’ordinazione sacerdotale nel 1650. Dopo essere stato, a due riprese, prefetto della casa di Milano (1656-1658; 1663-1664) e vice prefetto di quella della Maddalena (1660-1663), nel 1664 viene inviato in Spagna come vice provinciale e visitatore di quelle case. Ritornato in patria nel 1666, esercita il ministero a Milano. Nel 1671 viene imprigionato con l'accusa di aver aver pubblicato scritti antispagnoli. Dopo quattro mesi di carcere veniva liberato e mandato a Roma dove, nel 1672, veniva assolto da tutti i capi d'accusa. In seguito, viene nominato di nuovo prefetto della casa di Milano (1676-1680; 1682-1684) e provinciale della provincia di Napoli (1680-1682). Eletto Procuratore Generale dell'Ordine Camilliano (1684-1686), ne diventa Vicario Generale il 31 gennaio 1687, titolo che conserva fino al 1693, quando viene eletto alla stessa carica Francesco del Giudice, molisano. Nel 1693 Bartolomeo viene infine eletto definitore.

P. Piero Sannazzaro,
«Storia dell’Ordine Camilliano»,
(1550-1699), Vol. I,
pagg. 301-330

Le fonti

Le seguenti abbreviazioni sono usate nelle fonti:

  • AG - Archivio Generale dei CC. RR. Ministri degli Infermi.
  • ASP - Archivio di Stato di Parma
  • ASV - Archivio Segreto Vaticano

I primi anni

Il p. Bartolomeo Del Giudice, milanese, aveva 62 anni quando fu nominato generale, essendo nato il 29 giugno 1625.

Guglielmo Mohr,
«Catalogus Religiosorum CC. RR. Ministrantium Infirmis»,
pag. 798.

Era entrato nell’Ordine nel 1641, ed aveva ricevuto l’ordinazione sacerdotale nel 1650. Dopo essere stato, a due riprese, prefetto della casa di Milano (1656-1658; 1663-1664) e vice prefetto di quella della Maddalena (1660-1663), nel 1664 era stato inviato in Spagna, come vice provinciale e visitatore di quelle case. Ritornato in patria nel 1666, esercitò il ministero a Milano. Nel settembre 1671 la consulta veniva informata che il p. Bartolomeo Del Giudice era stato imprigionato nelle carceri arcivescovili di Milano «per imputazioni gravissime», e dava mandato al p. Corte, prefetto della casa, di iniziare «subito processo rigoroso».

AG. 1525, f. 104 (17 sett. 1671).

L’incriminato, a sua volta, era ricorso a Roma, alla Congregazione dei Vescovi e Regolari, la quale esaminava il processo impostato nella curia milanese ed il 27 novembre ordinava al card. Litta, arcivescovo di Milano, di «restar servito far scarcerare il detto frate, con precetto al medesimo, a nome della S. Congregatione, che, sotto pena di sospensione a divinis e di privationi di voce attiva e passiva, debba venirsene immediatamente a Roma, senza diverter altrove».

ASV., Congr. VV. RR. - Regolari - Reg. n. 78 (1671), f. 227.

In calce alla disposizione, era annotato: «Dal processo informativo, la Sacra Congregatione non solo conobbe non esser cosa alcuna contro detto Padre, ma apparisce una manifesta impostura e per togliere via ogni inconveniente, stimò bene farlo assentare da Milano e venire a Roma».

ASV., Congr. VV. RR., Regolari, Posizioni, 1672 (genn.-marzo).

Il p. Del Giudice, dopo quattro mesi di carcere duro («rigorosa secreta») veniva liberato e si trasferiva a Roma, a norma del decreto della Congregazione. Qualche mese dopo faceva richiesta alla stessa Congregazione, di assoluzione totale, anche per liberare da ogni sospetto i parenti, «acciò tale impostura in avvenire non possi mai pregiudicare alla sua casa e parenti che tanto nel politico quanto nel militare servono attualmente alla Maestà del Re Cattolico in quello Stato (di Milano)». Tutta la sua colpa consisteva — come specifica lui stesso — «a titolo d’haver composto alchuni (!) versi spagnuoli pregiudicevoli a quelli Ministri»

ASV., Congr. VV. RR., Regolari, Posizioni, 1672 (genn.-marzo).

È il caso di parafrasare il Giusti, anche per lui si trattava di alcuni versucci o scherzucci «di dozzina», che lo avevano fatto gabellare per antispagnolo e che avevano suscitato una reazione rigorosa nelle autorità. Il 24 marzo 1672, la Congregazione decretava che il p. B. Del Giudice era innocente e quindi da assolvere da ogni colpa ed il processo intentato contro di lui da annullare e cassare: «[...] Sacra etc., partibus auditis, reque mature ac diligenter examinata, censuit ac declaravit dictum P. Bartholomeum De Judicibus esse super enarratis delictis absolvendum tamquam repertum non culpabilem, neque de iure punibilem, ac ex capite innocentiae. Ac proinde processus contra eundem desuper fabricatos esse cassandos et annullandos, prout eadem S. Congregatio praesentis decreti tenore, dictum Patrem a praetensis sibi impetitis criminibus absolvit, ac respective processus praedictos cassat et annullat».

ASV., Congr. VV. RR., Regolari, n. 79 [1672], f. 52.

In seguito, era stato ancora prefetto della casa di Milano (1676-1680; 1682-1684) e provinciale della provincia di Napoli (1680-1682). Nel precedente governo del p. Lasagna, era stato nominato procuratore generale (1684-1686). Godeva fama di religioso amante dell’Ordine, perspicace, pratico e buon organizzatore. Una caratteristica del suo governo, specialmente all’inizio, furono frequenti ordini, decreti, disposizioni sull’osservanza e sulla disciplina, nei quali, non di rado, s’indulgeva a prescrizioni minuziose, secondo il gusto dell’epoca, dalle quali, come s’è visto, non rifuggiva lo stesso Innocenzo XI.

La nomina a Vicario

Il p. Carlo Biblia, vicario generale, intimava l’11 gennaio 1687, a norma delle costituzioni, il capitolo generale, da iniziarsi il 15 maggio seguente. Il 30 dello stesso mese moriva anche il p. Biblia. L’indomani 31 gennaio, mons. Panciatici, segretario della Congregazione dei Vescovi e Regolari, convocava il p. Bartolomeo del Giudice, procuratore generale, e gli comunicava che il sommo pontefice lo aveva nominato vicario generale dell’Ordine, fino a nuova decisione dello stesso pontefice. Il p. Del Giudice faceva ogni sforzo per sottrarsi all’incarico. Allora mons. Pianciatici chiamava il p. Paolo Natalini, segretario di consulta, e gli imponeva di rendere pubblica tale nomina, ciò che questi effettuava nella tarda serata dello stesso giorno, alla presenza di tutti i religiosi delle due comunità romane: «Hinc summo universorum plausu, et vera animi laetitia singuli praestitere Rev.mo P. Bartholomeo de Judicibus tamquam Vicario Generali Apostolico emeritissimo, qui omnes admirabili et vere paterna amplexatus est charitate».

AG. 1528, f. 34v (31 genn. 1687).

Il 6 febbraio, il nuovo vicario fu ammesso all’udienza pontificia ed Innocenzo XI lo intrattenne per un’ora e più. Volle essere informato degli affari più importanti della religione e ribadì la sua volontà, già manifestata al p. Lasagna, che nessun fratello godesse di voce passiva e quindi che i fratelli non fossero eleggibili ad alcun incarico. Dalla consulta venne perciò confermato il decreto emanato da quella precedente.

AG. 1528, f. 34v-35 (6 febbr. 1687).

In seguito, nel 1689, nell’ammettere i fratelli al noviziato, si farà loro premettere, alla vestizione, la rinunzia alla voce attiva e passiva.

AG. 1528, f. 63v (22 genn. 1689); f. 64v (11 febbr. 1689); f. 65 (11 febbr. 1689).

Il 19 marzo dello stesso anno, con rescritto pontificio, sarà generalizzata tale disposizione che nessun fratello laico venisse ammesso alla professione se non avesse premesso la rinunzia alla voce attiva e passiva, all’uso della berretta clericale e dell’abito talare proprio dei chierici.

AG. 1528, f. 60v (19 marzo 1689).

Il 9 febbraio 1687, mons. Casoni, segretario della Cifra del sommo pontefice, dava mandato al segretario di Consulta di comunicare al vicario e suoi consultori che il papa ordinava la revoca dell’intimazione del capitolo volendo provvedere lui stesso alla nomina del nuovo prefetto generale. In conseguenza, il 15 febbraio si «disintimava» il capitolo generale ed i relativi capitoli provinciali e locali.

AG. 1528, f. 35 (15 febbr. 1687).

Il 24 marzo, Innocenzo XI, «con motu proprio» nominava il p. Bartolomeo Del Giudice, prefetto generale per un sessennio, ad incominciare dal 4 maggio. I frequenti interventi pontifici (nomine, direttive, indirizzi) si spiegano con lo sforzo riformatorio del beato Innocenzo XI verso gli istituti religiosi, ai quali dedicava la massima cura e che concepiva come fari della Chiesa. Si preoccupava in modo particolare della disciplina religiosa e dell’osservanza dei voti. Il Pastor nota anche che i suoi sforzi apprezzabili e che alla fine furono coronati da successo, talora finivano di perdersi in minuzie.

AG. 1857/3
Ludwig von Pastor, «Geschichte der Päpste seit dem Ausgang des Mittelalters», XIV/II, pagg. 299-300;
Giorgio Papasogli, «Innocenzo XI», Roma 1956, pagg. 171-173.

Il Governo dell’Ordine

Il Solfi ci attesta che, fin dall’inizio del suo governo, il 4 maggio 1687, indirizzò a tutta la religione una circolare, in cui «significò (...) i paterni suoi sensi, e la sua pastorale sollecitudine, incaricando a tutti con soavi maniere il servitio di Dio, la regolare osservanza, la carità verso i poveri infermi, l’unione, e la pace religiosa per sostegno della regolare gerarchia. Per lo che allo stabilimento delle antepassate Constitutioni, pubblicò varij decreti concernenti il bene andare della Religione».

Carlo Solfi,
«Compendio Historico della Religione de’ Chierici Regolari Ministri degli Infermi»,
Mondovì 1689,
pag. 435.

Nei primi tempi si ebbe una vera raffica di decreti «pro bono regimine et gubernio Religionis». Nel maggio 1687 si stabiliva che, nei ricorsi, si avesse a seguire l’ordine gerarchico e quindi non si dovesse scrivere a Roma, da parte di superiori e sudditi, se non per vera necessità. Inoltre nella denunzia di un qualche inconveniente, si adisse prima al superiore locale, e, se questi non vi avesse posto rimedio, ci si rivolgesse al provinciale e, soltanto in caso di inadempienza di quest’ultimo, si facesse ricorso alla consulta. Nell’accusa di qualcuno, si avessero a portare le prove. Si avvertiva pure che non sarebbero state ammesse le lettere anonime, e che sarebbero stati severamente puniti i colpevoli. Si proibiva pure di brigare per ottenere cariche, od uffici, o mutazioni di casa. Infine si decretava l’esatta osservanza della cassa comune.

AG. 1528, f. 39v-40v (17 maggio 1687).

Il 19 luglio si rinnovavano le prescrizioni delle costituzioni contro del gioco, non solo di quello con denari, «ma con specialità prohibiamo — si dice — sotto formale precetto di S. Obedienza ad ogni nostro suddito, qualsivoglia gioco di carte, dadi, biribis et ancorché fosse per mero passatempo, e senza denari, tanto fra i nostri, quanto con estranei secolari et ecclesiastici, benché per una sol volta et in poca quantità».

AG. 1528, f. 42v (19 luglio 1687).

Il 9 agosto si ordinava ai prefetti locali, che anche nelle punizioni delle mancanze, si avesse a seguire l’ordine gerarchico, dando loro per primi inizio, anche quando si fosse trattato di delitti gravi, «con avalerse, bisognando dello stretto carcere, braccio ecclesiastico et, in mancanza di questi, del secolare, nel modo e forme che (...) stimaranno più convenirsi, per reprimere la baldanza de’ malviventi». E nell’istituzione dei processi, «esser tutte le prime cause proprie de’ Prefetti, come Superiori ordinari, le seconde spettare a’ Provinciali o Visitatori pro tempore (...)», lasciando alla consulta «il terzo luogo, per ultimo ricorso, alla quale volendo il reo appellarsi».

AG. 1528, f. 43v-44 (9 ag. 1687).

In varie occasioni si proibisce d’imprestare arredamenti sacri od argenteria.

AG. 1528, f. 49 (3 genn. 1688); f. 72v (30 ag. 1689).

Alla casa di Mondovì viene proibito, sotto gravissime pene, a tutti i religiosi che nessuno ardisca «dar ricetto, in alcun modo, a robe di contrabbando, neanche per brevissimo spatio di tempo».

AG. 1528, f. 42v (28 giugno 1687).

Avendo consapevolezza del grave danno che deriva alle case dalla poca cura dei documenti riguardanti l’interesse delle case, si ordina «in virtù di S. Obedienza a tutti i Prefetti, Cassieri e Procuratori che pro tempore amministreranno in qualunque modo l’entrate delle case, che facciano un inventano di tutte le scritture, pretensioni, polize, instrumenti, ricevute, testamenti, donazioni, ed ogni altra cosa che rimiri il vantaggio e bene andare temporale della casa».

AG. 1528, f. 54 (8 maggio 1688).

Viene pure richiamata la proibizione di aprire lettere dei consultori generali e superiori maggiori e si aggravano le pene già previste nelle costituzioni contro i trasgressori.

AG. 1528, f. 81v (1 apr. 1690).

Nelle Messe private, anche in quelle dei provinciali e dei prefetti locali, si elimini l’abuso di avere due inservienti, ma ne assista uno solo. La prescrizione era della Congregazione dei Riti e la consulta la richiama in vigore, minacciando, oltre le pene previste in quella prescrizione, la privazione dell’ufficio, ed altre ad arbitrio della consulta.

AG. 1528, f. 100v (16 giugno 1691).

A Genova vi era una certa trascuratezza e disinteresse nella partecipazione ai capitoli e riunioni comunitarie. La consulta se ne rammarica e si lamenta della «poca cura (...) d’obedire sollecitamente alla voce di Dio espressa nel campanello e particolarmente quando suona per congregar Capitoli o altre adunanze concernenti l’utile e buon governo delle case». Pertanto si comanda «espressamente a tutti e qualsivoglia de’ nostri vocali, che sentendo suonar il campanello per qualsivoglia funzione, debbano lasciar la lettera incominciata (...) e con sollecitudine portarsi al luogo destinato». Coloro che trasgrediranno tale ordine per tre volte, rimarranno privati di voce attiva e passiva in perpetuo.

AG. 1528, f. 78v (3 luglio 1689).

Anche la durata delle vacanze viene regolamentata. Essendo venuti a conoscenza che provinciali e superiori erano piuttosto corrivi a concedere permessi per «villeggiare», con scapito dell’esercizio del ministero e servizio delle chiese e delle case, si proibisce ai provinciali e prefetti o superiori che nessuno «in verun modo possa concedere licenza a’ Nostri di star in Villa più che per lo spatio di Otto giorni (...) e ciò solo in tempo di vendemmia (...), riservandosi al nostro Rev.mo P. Generale il concedere detta licenza per maggior tempo delli presignati Otto giorni».

AG. 1528, f. 51v (17 luglio 1688).

Nel comminare pene per i trasgressori non si era teneri. A tutti i precitati decreti erano annesse pene abbastanza severe, dall’accusa della colpa alla sospensione dell’ufficio o alla privazione della voce attiva e passiva. Ad un Padre che s’era permesso, in una lettera alla consulta «con non ordinaria impertinenza (di) lacerare satiricamente la fama di confratelli della sua casa», gli si infligge la pena di «una disciplina per lo spatio di un Miserere in pubblico refettorio», di baciare i piedi a tutti i Padri, e lo si ammonisce che se per quella prima volta se la passava leggermente, in caso di ricaduta gli si sarebbe trovato rimedio tale da fargli «moderare la penna e la lingua».

AG. 1528, f. 76v (21 genn. 1690).

In materia di povertà si regola l’uso del livello, cioè della parte di patrimonio personale, che un religioso s’era riservata prima della professione e della quale godeva gli interessi. Si vuole avere la lista di tali livelli, con la specificazione della data e luogo del relativo atto notarile: «Statutum fuit quod Novitii antequam Professionem sollemnem emittant, dicant si renunciam fecerunt, vel ne, et favore cuius, et posito quod illam fecerint, explicent summam livelli, quam sibi reservarunt annuatim et per acta cuius Notarii facta fuit, sub qua die et anno. Superiores locales notam faciant de omnibus his in libro Decretorum».

AG. 1528, f. 78 [25 febbr. 1680].

Tale livello però doveva essere conservato nella cassa comune e non dal religioso, e le spese a vantaggio e profitto del religioso dovevano essere compiute non da questi ma dal procuratore della casa. Al Provinciale di Sicilia si ordina: «Il P. Filippo Termine ci rappresenta che, stante le proprie estraordinarie indispositioni, tiene necessità di qualche governo straordinario da quello della Religione e perché questa Casa essigge del suo livello annui scudi venticinque, e non gli si danno che scudi quindici; vogliamo che la R. V. ordini al p. Prefetto Tinghini, che in avvenire non facci mancare cosa alcuna al detto Padre, non solo con spendere i soliti scudi quindici, ma anche tutta la somma delli suddetti scudi venticinque. Non intendiamo però che detto P. Termine ne disponga a suo capriccio o con darglili in proprie mani, ma che si spendano dal nostro spenditore in quello gli sarà necessario, et il resto rimanga depositato in cassa comune per i bisogni di detto Padre».

AG. 1528, f. 84 [6 maggio 1690].

A quanti non possedevano un adeguato livello, fu stabilito di dare, per il vestiario, ogni anno, scudi otto ad ogni sacerdote, sette ad ogni fratello, sia chierico che laico, e sei ad ogni oblato: «Statutum fuit quod unicuique Sacerdoti assignentur acuta octo in quolibet anno, pro vestiario; et septem cuilibet Fratri professo, sive Clerico sive laico; sex vero cuilibet Oblato; bis exceptis qui commodum possident livellum».

AG. 1528, f. 39v [10 maggio 1687].

Si cercava di dare una regolamentazione ad un indirizzo ed uso che sboccherà poi nel Settecento ed Ottocento, nel peculio e nella vita privata. Nell’esame delle relazioni delle case, le osservazioni sono puntigliose ... pignole. Al prefetto della casa di Madrid viene scritto: «Habbiamo osservato lo stato della casa inviatoci da V. R., onde in conformità di essa (...) sentiamo che hanno per servitio della medesima casa tre secolari, quali vogliamo in ogni conto, che si riduchino ad un Oblato, o un secolare solo e questo serva per la cucina; si legge nel medesimo stato che ogni giorno vi sono tre di più e non sappiamo capire come una casa tanto carica di debiti, faccia le spese per tre di più ogni giorno (...). S’osserva anche per il mantenimento de Religiosi esser assegnato per ciascuno mille e cento reali l’anno, che fanno la somma di tre reali al giorno per ogni religioso, il che è vivere da Cavalieri e non da poveri come siamo. Di più comprano la carne a minuto e forse anche il pane, e per qual causa non si tengono in campagna li castrati come si faceva nel tempo passato e non si fanno le provisioni del grano a suo tempo? Che in questo modo si avanzerebbe assai, e non poco della spesa. In somma levino gli abusi».

AG. 1528, f. 48 (31 ott. 1687).

Particolare attenzione era posta nell’esercizio del ministero. Si cercava d’intervenire appena si veniva a conoscenza di trascuratezza e d’inosservanza. Al provinciale di Napoli si fa un severo appunto: «Ci perviene notizia con nostro grandissimo dispiacere che in codeste case non si attende come di dovere all’esercitio del nostro S. Instituto, nel che habbiamo molta occasione di lamentarci di V. R., alla quale incarichiamo che lasci ogni altra cosa e la prima sia l’osservanza di detto Instituto, al quale prima bisogna pensare».

AG. 1528, f. 91v (11 nov. 1690).

Al prefetto della casa professa, responsabile della situazione, non viene risparmiato il biasimo: «Habbiamo molte occasioni di dolerci della R. V. e della sua poca condotta, mentre habbiamo riscontro che, o per poco zelo o per il suo poco spirito, si manca a quello che tanto ci preme e che tanto dobbiamo, cioè all’esercizio del nostro S. Instituto, facendo anche mancare il portinaro che possa prendere e portare l’ambasciata di chi viene a chiamare per moribondi. Pertanto strettamente le incarichiamo che, a tutti li modi, faccia che la prima cosa sia il provedere il culto divino e che vada a moribondi, e poi ogni altra, essendo molto disdicevole che si pensi prima ad andare a spasso e che per questo si trovino li compagni e poi manchino per andare a moribondi».

AG. 1528, f. 91v (11 nov. 1690).

Ci si compiaceva in quei luoghi nei quali il ministero era esercitato con zelo. Al provinciale di Spagna si ordinava: «Havendo noi inteso che nel nostro hospitio di Madrid s’attende da quel Prefetto e suoi religiosi con esattezza al santo Instituto et alla regolare osservanza, stimiamo bene ricordare a V.R. di non rimovere nessuno da quella casa, e non aggiungerne altri di famiglia, senza urgentissima causa, acciò maggiormente quelli che al presente vi dimorano possano attendere con efficacia al loro dovere».

AG. 1528, f. 49v (3 genn. 1688).

Lo studio degli studenti non doveva pregiudicare il loro servizio ai malati dell’ospedale, Al prefetto del noviziato di Genova si raccomanda: «Per quanto spetta a studenti, stimiamo la diligenza usa nel darli campo d’approfittarsi nelle scienze. Non intendiamo però babbi a patire il buon servitio di codesto Ospedale (di Pammatone); ma succedendo il caso di haver bisogno di loro, se ne dovrà servire con tutta libertà, dovendo prima premere sopra l’esercitio del nostro S. Instituto e poi alla buona educatione di essi nelle scienze».

AG. 1528, f. 122v (9 ag. 1692).

A Conversano (Bari), alla fine del 1690, s’erano verificati casi di peste con alcuni morti. Da parte del governo pontificio si presero le misure preventive stimate opportune, tra le quali la disinfezione della corrispondenza e degli oggetti provenienti da quelle località, il cosidetto «spurgo delle lettere». Per incarico di Alessandro VIII, mons. Spinola, segretario della Congregazione della Consulta, si rivolgeva alla consulta perché i nostri riprendessero il servizio già espletato nelle epidemie precedenti. Subito «alacri libentique animo voluntati Sanctitatis Suae satisfacere cupientes», il 4 gennaio 1691 furono destinati a tale scopo due sacerdoti, i padri Bartolomeo Merelli e Camillo Wittwer, ed un oblato, Paolo Politi, i quali l’indomani inizarono il loro lavoro fuori porta S. Giovanni, nella vigna di Giuseppe Pelloni, muratore, chiamato «l’Osteria nuova».

AG. 1528, f. 94v (4 genn. 1691).

Intanto veniva dato disposizione a Napoli che, essendo richiesti di prestarsi al servizio degli appestati, si soddisfacesse «al zelo di codesto Sig. Vicerè», tenendo presente che «la nostra volontà è che si mandino prima i sudditi e, mancando questi, i Superiori». Inoltre si esortavano tutti i religiosi a tenersi pronti, qualora la peste si fosse estesa ed avesse raggiunta la capitale. Però non fu necessario alcun intervento, essendosi spenta subito l’epidemia.

AG. 1528, f. 95 (16 genn. 1691).

Nel governo dell’Ordine, per le nomine dei superiori locali, venne concessa una certa autonomia alla Spagna, delegando alcune volte il provinciale a compierle tutte o alcune di esse, «per compromissum in Provincialem».

AG. 1528, f. 49 (4 maggio 1687); f. 53 (27 marzo 1688); f. 99 (20 marzo 1691).

Nella prima seduta di consulta fu decretata la durata di tre anni degli uffici del procuratore generale e del segretario di consulta e la precedenza di questo sui provinciali.

AG. 1528, f. 39 (4 maggio 1687).

Fu pure nominato cronista dell’Ordine il p. Carlo Soffi, il cui «Compendio storico» era da anni all’esame di delegati della consulta e che sarà pubblicato due anni dopo, nel 1689, e dedicato al p. generale.

AG. 1528. f. 39 (4 maggio 1687).

Le fondazioni

Durante il generalato del p. Bartolomeo Del Giudice vi furono proposte o progetti di fondazione, di un ospizio a Messina ed a Lodi (Milano), per i quali la consulta si dimostrò favorevole, delegando i superiori a prendere le dovute informazioni e iniziare le trattative, riservandosi di dare l’approvazione definitiva. Però non si giunse ad una conclusione.

AG. 1528, f. 46 (23 ag. 1687).
AG. 1528, f. 47v (11 ott. 1687).

Si ebbe la fondazione della casa di Parma, che era desiderata per vari motivi, essendo la città un passaggio obbligato tra le case dell’Emilia e quelle della Lombardia, Liguria e Piemonte. Inoltre, in quel tempo, era la capitale del Ducato dei Farnese e la vita religiosa ed ecclesiastica aveva una sua impronta. Vi si godeva di notevoli privilegi, essendo il ducato considerato un feudo di S. Romana Chiesa. È vero che in quello Stato vi era già la casa di Borgonovo, ma era decentrata in rapporto alle diverse vie di comunicazione e situata in un grosso borgo. Parma aveva un suo fascino che attraeva, anche se esistevano già in abbondanza conventi e religiosi, calcolandosi, alla fine del sec. XVII, su una popolazione che non raggiungeva i trentamila abitanti, 1450 circa tra religiosi e religiose. Nel 1668, il 5 maggio, dal generale p. Stefano Garibaldi, era stata aggregata all’Ordine la Pia Unione dei Serventi agli Infermi che operava nel locale ospedale generale della Misericordia.

Piero Sannazzaro, «La casa di Parma», Dom. 50 (1945) 121-137. Fonti archivistiche:
I - AG. 485, Busta dell’archivio generalizio contenente i documenti che riguardano la casa di Parma, tra i quali un fascicolo di memorie dalla fondazione della casa fino al 1779.
II - ASP. Corporazioni soppresse, Parma, Crociferi di S. Maria del Popolo: Vi sono depositate una ventina tra mazzi e buste dell’antica casa, per la maggior parte di carattere amministrativo.
Cfr. «Capitoli et ordini della veneranda Congregazione de’ Serventi de’ poveri infermi nello Spedale della Misericordia di Parma», Rossetti, Parma, 1701.

Ma è nel 1690 che ebbero inizio le pratiche per la fondazione della casa, quando il p. Pantaleone Dolera, allora in fama di grande oratore, tenne un corso di predicazione nella principale collegiata di Parma, s. Maria della Steccata. Ne approfittò per illustrare al duca Ranuccio II Farnese il fine dell’Istituto ed ottenerne l’autorizzazione per una fondazione. Nel settembre dello stesso anno fu delegato per iniziare le prime pratiche, il p. Mario Lanci, bolognese, il quale aveva già un suo piano, e che, alcuni anni prima, aveva dato prova della sua capacità, spirito di sacrificio ed intraprendenza nella fondazione della casa di Torino. Gli fu aggiunto, come compagno, il p. Giovanni Francesco Restagno. Da una lettera di Consulta al p. Lanci: «Avendo il nostro P. Generale fatto leggere in piena Consulta non meno la lettera scrittagli dalla R. V., che quelle [che] ha trasmesso anche al nostro P. Secretario, e ben considerati tutti i motivi che ella ci somministra per la fondatione da farsi in Parma: in virtù di questa nostra le diamo ampia facoltà di portarsi colà e di disporre di quei soggetti che più stimarà abili ad ottenere il suo intento, con participarci prima sopra quali haverà posto l’occhio, come ha fatto del P. Restagno e del Fr. Genti, quali prima non chiamarà se prima non haverà stabilito honesta habitatione».

AG. 1528, f. 89v-90 (9 sett. 1690].

Essi furono accolti in Parma da persone devote nelle loro abitazioni e si adattarono a vivere «di quello (che) veniva loro dato da fedeli per carità, unitamente con le limosine delle Messe che andavano dicendo, più volte però si ritrovorno in tale penuria che per li fossi s’andavano procacciando delle ortiche e cottele, di quelle si cibavano».

AG. 485/15.

Mons. Tommaso Saladini, vescovo diocesano, al quale s’erano rivolti, si dimostrò favorevole a concedere loro un oratorio o chiesa, purché non pretendessero una parrocchia. Si presentò l’occasione di ottenere il piccolo oratorio della Madonna del Fiore, e si stava già per stendere il contratto relativo, quando sorsero aspre difficoltà cagionate da voci calunniose contro dei padri, e tutto andò a monte. La consulta si rassegnò a vedere tramontare un tale progetto e diede ordine al p. Lanci di ritirarsi dall’impresa e trasferirsi a Mantova.

AG. 1528, f. 98 (3 marzo 1691).

Invece si presentava un’altra occasione di avere la chiesa di s. Antonio, commenda del card. Domenico Maria Corsi. Già si era ottenuta l’approvazione del duca, l’assenso verbale del cardinale ed il permesso della consulta, ma non si poté avere il beneplacito della S. Congregazione del Concilio, per essere detta chiesa contigua ad un conservatorio di giovani dette le «Preservate», che avevano diritto all’uso di una tribuna in chiesa per ascoltare la Messa e fare le loro devozioni; anzi l’abitazione dei padri avrebbe dovuto essere nello stesso edificio del conservatorio.

AG. 1528, f. 111 (10 dic. 1691).

«Intanto li Padri per più publicamente essercitare il loro pio e santo Instituto pensarono di aprire oratorio in virtù delle facoltà ci concedono le Bolle Pontificie e per detto effetto presero ad affittare un appartamento di una Casa grande, dove habitava famiglia nobile, e con permissione di Mons. Vescovo aprirono un piccolo Oratorio con altare per la Messa e per altre loro preghiere e devotioni, onde cresciuto il credito e dalla maggior parte degli infermi desiderati e chiamati, non potendo a due soli supplire a tanti, fu accresciuto il numero fino a quattro Sacerdoti, con la speranza sempre che il Signore non haverebbe mancato della santa Provvidenza e di provederli ancora di luogo migliore e più capace per la loro canonica fondazione; intanto si trattennero li quattro sacerdoti con un laico per alquanti mesi con grand’incommodo ristretti in picciole e scure stanze a terreno, a due letti per stanza, penuriando di tutto, fuori forse della divina gratia e di carità verso de loro prossimi».

AG. 485/15.

Nell’agosto 1692, con l’intervento del duca Ranuccio Il, si otteneva finalmente un’abitazione fissa con l’attigua chiesa di s. Maria Maggiore, situata nel centro della città. Detta Casa e Chiesa appartenevano alla congregazione laicale delle donne «Oblate e Riconosciute» che l’avevano ceduta in uso alla confraternita delle Cinque Piaghe, per l’annuo canone di lire imperiali 1.300 (pari a 75 scudi romani). Questa Compagnia rinunciava in perpetuo in favore del duca Ranuccio, il quale ne faceva cessione alla nostra religione, che, da parte sua, si impegnava al pagamento del canone annuo alle Oblate.

ASP. Crociferi ecc. Una mazza contiene le ricevute dei pagamenti del livello annuo delle Oblate.

Il 29 ottobre 1692, a norma delle scadenze costituzionali, veniva intimato dalla consulta il capitolo generale. Contemporaneamente si comunicava che, nei capitoli sia locali che provinciali, i due delegati da eleggere dovevano essere sacerdoti, cioè i fratelli godevano della voce attiva nei capitoli locali, ma non di quella passiva in ordine ai capitoli provinciali ed a quello generale. I capitoli tanto locali quanto provinciali, si svolsero regolarmente e non risulta che vi siano state contestazioni per la privazione della voce passiva ai fratelli.

AG. 1528, f. 131v (29 ott. 1692).

Per la causa di beatificazione del Fondatore, non vi fu alcun progresso. La consulta, l’11 aprile 1693, decretava di investire in beni stabili, sicuri e redditizi, il fondo della causa.

AG. 1528, f. 143v (11 apr. 1693).

L’ultimo capitolo

Il 4 maggio 1693, nella sala capitolare della Maddalena, si riuniva il XVI capitolo generale.

AG. 1888/III.

Ad esso partecipavano 19 capitolari ed era assente per motivi di salute il p. Ascanio Carelli, arbitro, il quale da Firenze aveva inviato la rinunzia. Oltre a questi, erano ammessi, a pieno diritto, i padri Gerolamo Pérez, provinciale della provincia Spagnola, ed i due soci della stessa provincia, Antonio Rubiolo e Domenico Gange, ma «uti particularibus personis et non uti assertis Provinciali et electis» — come specificava un rescritto della Congregazione dei Vescovi e Regolari del 27 aprile 1693 ed approvato da Innocenzo XII, il 30 seguente. Per la prima volta dalla fondazione dell’Ordine, non vi partecipava alcun fratello. La prima seduta, svoltasi secondo un preciso regolamento modellato sulla falsariga dei conclavi pontifici, si aprì, dopo le preghiere di rito, con un discorso del p. Giulio Maineri, il quale «pereleganti latina eruditaque oratione, ad sanctam proficuam legitimamque ac maiorem divini Numinis gloriam, Religionis nostrae profectum parituram electionem, AA.RR.PP. Capitularium corda, privatis iam a rebus abhorrentia, singulorumve praedictorum animos, quoscumque particulares mundumque redolentes fines, fastidientes vehementius accendit».

AG. 1887/III, f. 294v.

Intimato poi l’«Extra omnes», venne prestato il giuramento de munere fideliter adimplendo da parte di due padri ostiari del capitolo. Seguì l’appello dei capitolari, la presentazione delle testimoniali per quelli che erano stati eletti nei capitoli provinciali, la lettura del rescritto pontificio di ammissione dei padri spagnoli, l’elezione, per mezzo di schede e di palline, del segretario capitolare, del presidente del definitorio (al cui incarico venne eletto il p. Bartolomeo Del Giudice, generale) e dei quattro definitori. Si pervenne così all’elezione del prefetto generale il quale, per la legge del turno, spettava alle province di Napoli e di Sicilia. Il p. Francesco Del Giudice, della provincia napoletana, consultore, nella votazione a schede ottenne 17 voti su 22 votanti e poi, in quella seguente a palline, fu eletto all’unanimità.

Il primo definitore, p. Giovanni Andrea Sarcelli, fece poi la rinunzia dal suo ufficio, al quale fu eletto l’ex-generale p. Bartolomeo Del Giudice. Dopo la proclamazione dell’avvenuta elezione, fu prestato al nuovo generale l’atto d’ubbidienza, seguendo un certo ordine, molto significativo: innanzitutto i definitori, a nome loro e di tutto l’Ordine; poi il provinciale romano con i suoi due soci, a nome della loro provincia; in seguito gli altri provinciali e rispettivi soci, in rappresentanza delle singole province, fino a quello spagnolo; ed infine, i religiosi della casa generalizia. Si volle così esprimere l’adesione di tutto l’Ordine al nuovo generale. Quindi processionalmente tutti si recarono in chiesa, dove erano radunati i fedeli richiamati dall’annunzio festoso delle campane, e si cantò il Te Deum, «musicis modulis instrumentisque». Si chiuse la funzione con l’invocazione dell’aiuto divino sul nuovo eletto, che impartì ai presenti la benedizione: «Rev.mus Pater ad populum conversus omnes et singulos, elato aliquantulum brachio, SS.mae Crucis signo, paternas effudit cordi benedictiones».

AG. 1887, f. 304v.

[N.d.A.] Da notare che, nonostante l'omonimia, non vi alcuna relazione di parentela fra Bratolomeo del Giudice e Francesco del Giudice, ovvero il suo successore nell'Ordine Camilliano. Quest'ultimo era nato infatti a Isernia e aveva fatto la vestizione a Napoli. Si tratta quindi di un del Giudice molisano.